Nel segno di un sogno

Nel segno di un sogno di Vittoria Russo

“La barriera tra la persona sorda e udente, che un uomo solo ha avuto il coraggio e il talento di abbattere, non esisterà più. L’uomo nella natura e l’uomo nella società saranno finalmente insieme e uniti”.

(Sicard, 1803)

Mi trovo in un luogo molto vasto, penso di essere ad un convegno ma mi guardo intorno ed il posto mi ricorda in realtà una sorta di multisala cinematografica, con grandi poltrone disposte secondo gradinate discendenti. Ci sono molte persone che parlano fra loro, si salutano, si ritrovano. Io mi guardo intorno, sono colpita dal colore: un blu che sembra quasi una sorta di nota di sottofondo per tutto l’ambiente, così ovattato così denso. Mi siedo, cercando una sistemazione comoda ed inizio ad osservare i volti delle persone. Succede qualcosa di particolare: la mia attenzione è catturata da due individui, mi sembra di riconoscerli e mi soffermo a guardarli mentre conversano. Sono molto distante, percepisco la dimensione del vedere da lontano. In questo spazio tutto blu l’orientamento del mio sguardo verso le due persone è avvolto da una scia di colore differente, con lo stesso effetto di un occhio di bue orientato su di un palcoscenico. Non posso sentire, non capisco di cosa stiano parlando le due persone ma all’improvviso osservo con attenzione, stanno usando le mani per conversare, parlano in lis ed io riesco a distinguere chiaramente solo due segni che usano ripetutamente: CONOSCERE e PARLARE. Sono contenta perché ho riconosciuto i segni, li ho capiti, li ho fatti miei.

Questo è il sogno che ricordo di aver fatto in cui per la prima volta hanno fatto la loro comparsa i segni: al risveglio ricordo di aver provato una sensazione particolare, sentivo che qualcosa stava nascendo al di là degli studi sulla lis, dell’interazione con persone sorde, dell’entrare in un mondo nuovo in cui i segni appaiono come una forma di comunicazione che, sulla scia di quanto già riportava il filosofo illuminista Denis Diderot nella sua Lettre sur les sourds et muet del 1751, intrattiene rapporti con il pensiero e le rappresentazioni dei sensi. Si stava creando lo spazio per la nascita di quel neurone lis (cfr. articolo precedente, Russo, Nascita di un neurone lis), che in modo affascinante creava confusione e sovrapposizione fra due mondi, quello del pensare da udente e da udente che inizia a “sentire” i sordi.

Nel sogno riconosco solo due segni specifici, CONOSCERE e PARLARE. Sono due segni particolari: simili per configurazione (la forma che assume la mano), per orientamento (la direzione verso la quale rivolgo il palmo della mano), per movimento (che viene dato alla mano); differiscono per il luogo (in cui eseguo il segno). Come si può vedere dalle figure riportate (tratte da Radutzky et al., 1992, Dizionario bilingue elementare della Lingua Italiana dei Segni) è nel luogo di esecuzione del segno che definisco la specificità, la semantica dei due segni, la definizione concettuale.

conoscere

parlare

 

 

 

 

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CONOSCERE                                     PARLARE

Conoscere e parlare, conoscere e parlare sentivo nelle orecchie e pensavo al risveglio ricordando quel sogno, che mi ha accompagnato per diverso tempo, ponendomi di fronte ad interrogativi essenziali: come pensa la persona sorda? Come penso io quando sto in seduta con lui? Io faccio riferimento al verbale pensando di strutturare un pensiero, ma quando parlo al paziente sordo lo faccio in lis: il  verbale lascia il posto al movimento delle mani, che si muovono secondo una logica grammaticale differente dalla mia lingua madre. I piani del pensiero sono allora due, e si presentano simultaneamente con le reciproche interferenze: ripensavo alla fatica che sentivo all’inizio del lavoro in terapia con i pazienti sordi, ma nello stesso tempo mi colpiva la sovrapposizione fra fonicità dell’elemento verbale e graficità nel senso di iconicità del segnato. Le caratteristiche iconiche della lingua segnata permettono “di stabilire delle relazioni di somiglianza tra il segno e uno schema mentale, spesso immaginifico e metaforico, di aspetti del suo significato” (Russo Cardona, Volterra, 2007, p. 34).

Al risveglio dal sogno la “prepotenza” dell’elemento sonoro era forte e ridondante in quella ripetizione (conoscere – parlare), che simultaneamente si accompagnava all’elemento visivo, all’immagine del sogno, ai segni che visualizzavo e rapidamente mi lasciavano l’idea dell’argomentazione in corso tra le due persone. In quello spazio blu così ovattato e particolare, potevo iniziare a mettere a fuoco il pensiero, interrogarmi sulla sua nascita in divenire; nello stesso tempo potevo guardare le immagini che in una sorta di rappresentazione tridimensionale lo costituivano. “ Senza dubbio, la supremazia della lingua dei segni o della mimica sta nella sua chiarezza e precisione; in questo aspetto è superiore alle lingue parlate [….], che possono rappresentare le idee solo attraverso la mediazione dei suoni, la lingua dei segni rappresenta le idee direttamente” (Desloges, 1779, p. 34).

Non tutti i sordi utilizzano la lis per comunicare, per diverse ragioni che spesso si incastrano nella storia della vita di queste persone, nell’intreccio tra la consapevolezza del senso di un sé “sordo” e le resistenze in famiglia (per pazienti sordi figli di genitori udenti). In questo caso l’accettazione della lis come lingua presenta notevoli difficoltà, che si riflettono negli stati di sofferenza che in alcuni casi portano le persone sorde in terapia. I pazienti con cui lavoro, sordi dalla nascita, non hanno potuto utilizzare la lis da subito: all’interno delle famiglie “lo scontro” con la sordità ha definito spesso le relazioni in modo rigido, lasciando spazio alla negazione del trauma e al disconoscimento dell’altro. Se è vero che “impariamo e assorbiamo la cultura in cui viviamo attraverso il modo in cui veniamo allevati, il linguaggio, le attività sociali quotidiane” (de Zulueta, 2006, p. 6) è importante riflettere sull’acquisizione di “un’identità linguistica, di un senso di sé verbale che organizza e definisce le nostre esperienze” (ibidem, p. 6).

Il bambino sordo immerso in un mondo di udenti che non lo sente, che lo vuole istruire all’uso del verbale, come avrà imparato a vedere la realtà? Che senso avrà dato ai comportamenti di chi gli stava intorno? Ripenso alla descrizione di un paziente sordo adulto in merito ad un episodio della propria infanzia: “Quando uscivamo mamma mi teneva per mano, quando incontravamo qualcuno mi stringeva ancora più forte. Io non facevo niente, sorridevo, guardavo il volto di mamma; la sua mano continuava a stringere forte la mia. Non capivo quando ero bambino. Adesso penso questa cosa: mia mamma si vergognava di me, provava questo sentimento, la vergogna di avere un figlio sordo. Non potevo usare le mani, mi ricordo come stringeva”. La mano della mamma come una morsa che taglia, chiude ogni tipo di contatto, nega l’incontro con l’altro; la vergogna quale consapevolezza mancata “del dolore emotivo tenuto nascosto sia a sé sia agli altri” (Block Lewis, 1971, p. 197).

Jean Piaget (1929, pp. 135 – 138) descrivendo i bambini da un anno e mezzo agli otto anni parla del pensiero magico, della fase dello sviluppo cognitivo in cui il bambino attribuisce ai pensieri il potere delle azioni, non riuscendo ad avere ben netta la distinzione tra i propri pensieri ed il mondo esterno. Penso a questa distinzione ancora più complessa da definire per un bambino sordo: dove iniziano i suoi pensieri, come è stato aiutato a percepire i confini del mondo esterno dovendo contare magari su una mamma e un papà che non hanno saputo veicolare, nella ricerca di un linguaggio condiviso, il modo di vedere la realtà?

Penso al bambino sordo come ad una persona che ha imparato prima di ogni cosa a sentire con gli occhi: il suo sguardo è canale privilegiato per osservare, indagare, scrutare quel mondo che lo circonda fatto di suoni, espressioni verbali, movimenti repentini, cambi scena in sequenza in cui la ricerca di collegamenti è ardua se gli adulti che ti circondano non ti aiutano a trovarne i nessi. Quando una mamma si trova in una stanza della casa con il proprio piccolo e deve assentarsi per qualche istante, magari per prendere qualcosa da un altro luogo, solitamente rivolge il proprio sguardo al bambino, confortandolo con frasi del tipo “vengo subito, vado in camera a prendere una cosa”, facendogli sentire la propria presenza, definendo un prima e un dopo. Nei racconti di pazienti sordi invece questa stessa vignetta può essere così descritta: “Io giocavo per terra, vicino vedevo mamma, ogni tanto alzavo lo sguardo. All’improvviso non c’era più, io ero solo, abbandonato. Dopo un po’ di tempo lei era vicina a me”. E’ interessante notare la sfumatura semantica del segno utilizzato per descrivere lo stato del ritrovarsi da solo, che in lis è rappresentato dal segno LASCIARE, che significa anche perdere, che offre l’immagine visiva della distanza, della separatezza, del qualcuno – qualcosa che prima c’era e poi non c’è più. In una logica che richiama Bowlby e il comportamento di attaccamento, definito come “quella forma di comportamento che si manifesta in una persona che consegue o mantiene una prossimità nei confronti di un’altra persona, chiaramente identificata, ritenuta in grado di affrontare il mondo in modo adeguato” (Bowlby, 1988, p. 25). Per Bowlby la funzione biologica del comportamento di attaccamento è quella di assicurare accudimento e relativa protezione al bambino; nello stesso tempo offre un sistema di comportamento finalizzato ad assicurare al piccolo la vicinanza con chi si prende cura di lui. In questo modo il bambino può sentirsi sicuro nell’esplorazione del mondo circostante, forte di quel ritorno alla base sicura che gli permetterà di fare affidamento su di sé, sulla propria autonomia in divenire. Nella descrizione dell’esperienza infantile il paziente sordo riferiva la sensazione di uno stato abbandonico che gli impediva l’esplorazione dell’ambiente, che invece diventava minaccioso, fonte di angoscia. Si ritrovava da solo, chiuso tra le pareti di un silenzio assoluto, non confortato dalla vicinanza della mamma che non riusciva a percepire: dov’era finita all’improvviso, chi ne aveva annullata la presenza da un momento all’altro? Chi poteva tenere l’angoscia che in quel momento stava provando il bambino?

Stern guardando all’interazione mamma – bambino definisce la sintonizzazione dell’affetto, uno stato in cui la mamma rispecchia il comportamento del proprio bambino direttamente o utilizzando una diversa modalità sensoriale. Così per esempio una mamma può rispondere ai movimenti eccitati del proprio bambino con suoni di eguale ritmo, insieme a movimenti che si abbinano per forma, intensità e coordinamento temporale. In questo modo la mamma risuona emotivamente con il proprio bambino, riformulando la sua esperienza in un’altra forma di espressione. Secondo le osservazioni di Stern questo complesso comportamento sincronizzato produce un allineamento di stati interni fra mamma e figlio, una sintonizzazione appunto a livello degli affetti (Stern, 1985, pp. 148 – 151). Ciò che invece mi colpisce nelle descrizioni delle interazioni mamma – bambino sordo è l’assoluto silenzio, ma non quello che posso pensare da udente possa percepire il bambino: lui è sordo e il silenzio non ha la stessa intensità che posso provare io. Il silenzio che mi incuriosisce è quello dei genitori che si relazionano con i figli sordi, secondo una sorta di sottinteso taciuto, dolorosamente provato e forse mai ammesso: è inutile che io dica, il mio bambino non mi sente. Nel sentimento di inutilità della parola si gioca spesso la negazione della relazione, dell’interazione giocosa, della ricerca di un contatto secondo altre modalità sensoriali come riportava Stern. Quale spazio avrà avuto il gioco fra una mamma e quel bambino sordo, che oggi adulto non ricorda di aver mai giocato con la propria madre né con il proprio padre: “Io e mio fratello giocavamo nella nostra stanza. Ci divertivamo con la pista delle macchinine. Forse facevano rumore, perché vedevo mio papà sulla porta che ci guardava con la faccia seria, sembrava arrabbiato. All’improvviso chiudeva la porta, io e mio fratello ci guardavamo e non capivamo”.

In linea con la teoria dell’attaccamento e la funzione di una base sicura che può offrire una difesa primaria contro la psicopatologia indotta dal trauma (Schore, 1996, pp. 59 – 87), è interessante riflettere sugli effetti conseguenti a “ separazione temporanea o permanente dovuta all’interruzione della sintonizzazione [….], che può provocare disorganizzazione fisiologica, comportamento depresso e, in alcuni casi, vulnerabilità alle malattie a causa di cambiamenti nel sistema immunitario” (Field, 1985, p. 449). I pazienti sordi incontrati già nei colloqui iniziali riferiscono stati di sofferenza specifici: “Io penso a questa cosa, la depressione, perché mi sento triste, non dormo bene e continuo a rigirarmi nel letto. Il lavoro è fatica, uscire con gli amici è fatica. Forse questa è depressione”. La parola depressione è una sorta di filo rosso che unisce le prime comunicazioni di questi pazienti, alle prese con il ricorso farmacologico in età giovanile. L’assunzione di farmaci in lis è rappresentata attraverso il segno che richiama l’introduzione di cibo in bocca, un segno molto spesso usato dai pazienti per descrivere le uniche interazioni sentite come significative dai genitori, che per relazionarsi con i loro figli ponevano la loro attenzione sul cibo, quale veicolo concreto di cura e benessere: “Ti piace quello che ho preparato? E’ buono? Ne vuoi ancora? Tutto bene?”. Quel bambino prima accudito nel “riempimento” di cibo (che sottolinea il vuoto nel pensiero, la fatica nel tenere l’altro fra le braccia della propria mente), dopo “tappato” con il farmaco, la pastiglia dentro quella bocca che perde la propria identità: non più luogo per la parola, ma “dentro” che può essere solo riempito. Quel bambino guarda la sua mamma, non capisce quello che avviene e probabilmente la sua mamma non sa quello che deve pensare, sa quello che sente di fare; in un gioco delle parti in cui non vi è quella che Gallese e Goldman (1998, pp. 493 – 495) definiscono la capacità di leggere la mente, ma l’esatto contrario: ci sono due persone che interagiscono, i loro cervelli si limitano ad osservare l’uno il comportamento dell’altra, mancando una rappresentazione specifica dei reciproci stati mentali.

Ritorno al mio sogno, ripenso al confronto conoscere – parlare: il mio linguaggio determina il mio modo di vedere la realtà ed è legato al mio senso di identità (de Zulueta, 1999, p. 185). Sono in seduta con un paziente sordo che non si è sentito voluto dai propri genitori, che probabilmente pensa di “essere essenzialmente poco desiderabile, cioè di essere non voluto da tutti”(Bowlby, 1973, pp. 259 – 260). Ascolto e guardo le sue narrazioni che penso siano sentite forse per la prima volta da una persona udente, cercando di rendere attivo quell’orecchio genitoriale percepito come sordo dal paziente nel corso delle sue esperienze infantili. Ci sentiamo, posso conoscere l’altro attraverso quella  funzione riflessiva (Fonagy et al., 2002) che mi permette di sperimentare la mente dell’altro, riconoscendone il suo senso di sé e la sua identità.

Ognuno di noi si definisce in relazione al proprio mondo culturale e quello della comunità sorda ancora una volta mi offre la possibilità di interrogarmi sul significato di un aspetto, il nome proprio, che contribuisce alla definizione di un senso di sé, della propria identità. Impariamo a riconoscerci nel nostro nome e riconosciamo quelli che ci circondano attraverso il loro (Russo Cardona, Volterra, 2007, pp. 4 – 45). In molte culture l’attribuzione di un nome ha un significato legato al cambiamento, al passaggio da uno status all’altro, ad un momento evolutivo. Nel nostro ambiente sociale il nome dato ad un bambino non sembra, a differenza di quanto poteva accadere nel passato, denotare segnali di identificazione relativi all’appartenenza, quanto piuttosto riflettere tendenze legate a mode e interessi. Per una persona sorda invece accade qualcosa di particolare e specifico: possiede due nomi, quello in lingua vocale (ad esempio Roberto) e quello in lis, il nome – segno che si definisce quale strumento di identificazione e di appartenenza alla comunità sorda. E’ così evidente come le persone sorde vivano una sorta di doppia identità, una duplice appartenenza: quella al mondo degli udenti e quella al mondo dei sordi. E in questa dualità la persona può ritrovare il senso della propria unicità?

Penso a Francesco, figlio adolescente udente con madre sorda e papà udente; arriva a me con una diagnosi un po’ generica di autismo. Il papà segna poco con la mamma, si esprime maggiormente su un canale verbale che spesso genera incomprensioni tra i due. La mamma usa la lis, è piuttosto contrariata per la modalità verbale mista a lis usata dal marito, non si capiscono, non trovano in diverse occasioni un accordo comunicativo, non si riconoscono. Al primo colloquio con i genitori arriva anche il figlio: i genitori non avevano capito che non dovesse essere presente. Penso alla confusione tra lingue, ai piani mentali che si sovrappongono, alla fatica di stare nei confini. Mi colpisce il figlio, lo sento attento, osservatore, mi scruta con i suoi profondi occhi scuri, si guarda intorno curioso. E negli istanti iniziali di questo incontro, mentre ancora siamo in piedi cercando di definire questo equivoco, il ragazzo rapido prende due animali dalla scatola dei giochi che ha intravisto entrando nella stanza. Li guardo, sono una giraffa e una zebra. Francesco cerca la mia attenzione alzando i due animali, li mette vicini e mi dice: “Guarda che animale particolare, è proprio strano. Sai come si chiama? Questa è una GIZEBRA, è proprio forte”. Francesco, figlio diviso a metà tra il mondo degli udenti e quello dei sordi, si presentava a me: come un essere particolare, definito da una unione singolare. Mi stava indicando la via della nostra terapia, la strada da percorrere in un’individuazione che gli avrebbe permesso di ritrovare la propria originalità, di riconoscere il proprio senso nell’essere nominato. Ho pensato che Gizebra potesse essere in un certo senso il nome – segno di Francesco, che alla mia richiesta (“Qual è il tuo nome – segno?”) mi aveva guardato e si era stupito che io parlassi quel linguaggio, che io fossi a conoscenza di quella particolarità. Mi aveva fatto vedere un nome – segno inizializzato, fatto cioè utilizzando semplicemente la lettera iniziale del proprio nome. Ho pensato all’abbozzo, alla fatica di essere pensato e identificato in un nome – segno più articolato, che potesse comprendere le sue caratteristiche, le sue capacità.  Nella sua famiglia l’uso della lis era solo una cosa per sordi, difficile pensare di potersene appropriare in quanto udente. Ma ho visto poco per volta Francesco interagire con la mamma, gli ho visto usare segni di affetto particolari, sentirsi meno timido e più consapevole dell’uso che poteva farne. La Gizebra era davvero un animale particolare e forte, originale e in grado di esprimersi secondo due linguaggi differenti. Poteva farlo, aveva bisogno di trovare uno spazio in cui muoversi, in cui capire come misurarsi con i propri pensieri e con la possibilità di farlo.

I nomi – segno possono essere distinti “in almeno due grandi categorie: arbitrari e descrittivi. I secondi si differenziano dai primi perché identificano una persona attraverso una caratteristica fisica, caratteriale o legata al suo ruolo sociale. Quelli arbitrari, invece, non esprimono direttamente una qualità dell’individuo che identificano” (Russo Cardona, Volterra, 2007, p. 42). Una persona sorda può inoltre avere un nome – segno attribuito in famiglia, ed uno con il quale è identificato nel proprio contesto sociale e lavorativo. Pertanto in alcuni momenti della vita una persona sorda può cambiare il proprio nome – segno: vi può essere una prima attribuzione da parte della famiglia (nel caso in cui anche i genitori siano sordi); una seconda da parte di amici o compagni di scuola; un successivo cambiamento in relazione alla propria professione. Un cambiamento che tiene conto dei passaggi evolutivi di una persona, delle sue relazioni con il mondo che lo circonda, del tempo che vive dentro e fuori di sé. La capacità di mantenere traccia dell’identità attraverso il tempo e lo spazio usando un segno è legata ad una proprietà semiotica denominata metalinguisticità riflessiva (Russo Cardona, Volterra, 2007, p. 45), ed è una caratteristica specifica di sistemi complessi come le lingue. L’incontro con persone sorde mette necessariamente nella condizione di interrogarsi sui tratti specifici dei segni, che devono essere osservati “con occhi liberi dai condizionamenti della linguistica delle lingue vocali per cogliere, in piena autonomia, i caratteri essenziali della loro struttura e del loro funzionamento” (Jouison, 1995, p. 53). Francesco si era mostrato sinceramente stupito di trovare qualcuno in grado di comprenderlo, di stare dentro un “recinto” altro.

La triangolazione identità – tempo – spazio mi fa ritornare al sogno e ad un’altra triangolazione: terapeuta – conoscere – parlare, che posso allineare alla prima ragionando e proponendo una serie di spunti di riflessione su questi aspetti: a) terapeuta – identità; b) conoscere – tempo; c) parlare – spazio.

  1. Come terapeuta segnante la ricerca di una propria identità in tal senso richiede probabilmente (per quello che riguarda la mia esperienza) la capacità di tollerare la frustrazione di voler dire, ma magari di non sentirsi ancora in grado di dire. Esperienza simile a quella provata con pazienti udenti, a cui a volte vorrei dire ma non è tempo di dire. In una ricerca di senso, di esperienza, una sorta di viaggio fra i propri pensieri e le emozioni del paziente.
  2. La conoscenza ha bisogno di tempo, di differenti piani temporali oggettivi e soggettivi. La percezione del tempo per le persone sorde è differente da quella delle persone udenti per esempio: si tratta di “una concezione del tempo legata alla loro condizione di comunità frazionata e dispersa sul territorio: le riunioni tra amici si prolungano molto al di là dell’evento che le ha generate e, anche quando l’occasione per incontrarsi sembra terminata, prolungano le conversazioni in piccoli gruppi e tardano a lungo prima di lasciarsi” (Russo Cardona, Volterra, 2007, p. 38). La concezione del tempo è legata alla socializzazione, alla voglia di stare insieme, di percepire la propria identità attraverso un senso di appartenenza alla comunità. Mi sono accorta di questo durante i colloqui preliminari, facevo fatica nella tenuta del “mio” tempo, legato alla dimensione lavorativa. Ho avuto bisogno di tempo per sintonizzarmi, prima e dopo le sedute per arrivare a lavorare come normalmente faccio.
  3. Per comunicare in lis vi è uno spazio fisico definito neutro, il luogo in cui vengono eseguiti i segni. Al di fuori di questo spazio la lis si perde o meglio si interrompe la comunicazione con l’altro. Penso possa essere importante fare spazio dentro di sé, per accogliere gli aspetti legati alla sordità. In seduta con pazienti sordi mi è capitato di pensare quasi in modo assoluto: “siamo due persone sole, io sola udente nel mio sentire, l’altra sola sorda nel suo sentire”. Al di là di uno spazio neutro per segnare, è affascinante la ricerca di una neutralità interna per fare spazio all’altro. Nel mio sogno lo spazio di esecuzione dei due segni diventava essenziale per individuarne il senso, per capire cosa comunicare. Nel sogno il mio sguardo si posava lento tra un movimento e l’altro, seguivo le mani, potrei dire usando gli occhi per sentire. Dallo spazio di quel primo sogno oggi mi capita in alcune occasioni di fare sogni interamente in lis: i pensieri hanno forse trovato nuovi spazi per comunicare.

Bromberg definisce la psicoanalisi “una raccolta di piccoli frammenti che divengono straordinariamente meravigliosi quando si rivelano una chiave di accesso a una verità più profonda” (2006, p. 11). Nello stesso senso l’avvicinamento alla lis in chiave analitica offre la possibilità di raccogliere una serie infinita di nessi, di relazioni, di comunicazioni per accedere a nuove verità sulla clinica, a nuove esplorazioni e interrogazioni sulla conoscenza. Stiamo in seduta con un paziente, comunichiamo, in tanti modi diciamo qualcosa, in ogni momento. Sono molteplici le comunicazioni che veicoliamo in modo più o meno consapevole, tanti sono i segnali (segni) che un paziente coglie nel nostro modo di essere e stare in seduta. Potrebbe essere interessante e divertente catalogare le differenti sfumature dei silenzi, delle pause, dei cenni di assenso, dei suoni (mmm, ah per citare i più “famosi”): per ognuno un paziente è in grado di coglierne il senso, le varianti. Anche in lis accade tutto questo, come nella lingua verbale tante sono le sfumature all’interno della lingua. Il database internazionale delle lingue Ethnologue (www.ethnologue.com) conta 114 diverse lingue dei segni: dalla ASL (American Sign Language) utilizzata da 500.000 segnanti, ad un’altra ASL (Adamorobe Sign Language) una lingua dei segni in uso in un villaggio del Ghana che conta 300 segnanti nativi. In una varietà di segni e significati che rendono unica la scoperta, perché le vie per arrivare alla conoscenza dell’altro sono numerose, cercarle può essere un viaggio affascinante.

BIBLIOGRAFIA:

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Bowlby J. (1973),  Attaccamento e perdita, vol. 2: La separazione dalla madre, Torino, Boringhieri, 1975.

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SITI INTERNET:

http://www.ethnologue.com

http://www.ethnologue.com/show_family.asp?subid=90008